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Data: 13/09/2003 Visite: 2451

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Pecorelle_e_apennini

pierina

che dolcezza che lontananza che ...

Inserito da Visitatore gio 27 mag 2004 22:07:08 CEST

apennini

pierina

così lontano!

Inserito da Visitatore gio 27 mag 2004 22:03:59 CEST

Rossore

pierina

troppo bello

Inserito da Visitatore gio 27 mag 2004 22:01:07 CEST

bassa_nebbia

pierina

ooh

Inserito da Visitatore gio 27 mag 2004 21:57:50 CEST

Cavra

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La Catinù e il Cavra, erano i miei maestri, i nomi veri quasi li ignoro, perché a quei tempi i nomi erano dati in base alla persona, al suo carattere o a qualcosa che lo personalizzava, li chiamavano sopranome, giustamente, visto che era sopra, era più importante.
Alcune volte purtroppo questi sopranomi avevano anche un po’ di malignità nel suo contenuto, es: bighi, forse, rifletteva il carattere attribuito alla famiglia, litigiosa, tradotto in un pessimo italiano.
Catinù, è semplicemente una Catina, che per la sua struttura fisica, è stata dotata di questo ù finale, che tradotto in non italiano significa iper cosi è successo anche alla mia famiglia, siccome il nome Menec era molto comune per distinguerli, sono stati tradotti in meneghi, Meneghet, e noi in Menegù sempre con la famosa ù significativa alla fine.
La catimù è stata la prima donna che portava le “braghe” nel paese di Tignale, è stato quasi uno scandalo, però credo che per quella ù finale anche la popolazione debba essersi...

La Catinù e il Cavra, erano i miei maestri, i nomi veri quasi li ignoro, perché a quei tempi i nomi erano dati in base alla persona, al suo carattere o a qualcosa che lo personalizzava, li chiamavano sopranome, giustamente, visto che era sopra, era più importante.
Alcune volte purtroppo questi sopranomi avevano anche un po’ di malignità nel suo contenuto, es: bighi, forse, rifletteva il carattere attribuito alla famiglia, litigiosa, tradotto in un pessimo italiano.
Catinù, è semplicemente una Catina, che per la sua struttura fisica, è stata dotata di questo ù finale, che tradotto in non italiano significa iper cosi è successo anche alla mia famiglia, siccome il nome Menec era molto comune per distinguerli, sono stati tradotti in meneghi, Meneghet, e noi in Menegù sempre con la famosa ù significativa alla fine.
La catimù è stata la prima donna che portava le “braghe” nel paese di Tignale, è stato quasi uno scandalo, però credo che per quella ù finale anche la popolazione debba essersi arresa, e dopo anni si è rassegnata, smettendo di criticarla.
Il cavra, era invece legato penso, come sopranome, al fatto che accennavo prima sul sistema per ritrovare questo posto.
Il cavra con movimenti dosati e significativi, dopo i saluti, si sedeva al fuoco, introduceva la mano nelle enormi tasche, a quei tempi le tasche servivano ancora per contenere il kit della sopravvivenza, coltello, scatola del tabacco, accendino, fazzoletto o meglio dire tovaglia, e poi una serie di oggetti strettamente personali, , poco da invidiare alle borsette delle donne, con mano sicura estraeva prima la scatola del tabacco, che era in metallo luccicante, poi le cartine, qui iniziava il rito.
Appoggiava la scatola sulle gambe, con una mano l’apriva, poi mantenendola in equilibrio, estraeva una cartina, vi appoggiava sopra il tabacco, trinciato forte taglio fine, si chiamava, forse perché i pezzi più grossi erano più piccoli di una matita, con movimenti sapienti delle dita riusciva a distribuire questo taglio fine in quella minuscola cartina.
Ora toccava alla parte più impegnativa arrotolare .
Qui si vedeva la personalità c’è chi arrotola bene chi male, con calma, di fretta, chi a forma di imbuto chi cilindrico o a forma di fuso, con tantissime altre sfumature intermedie.
Finito il rito, generalmente svolto con una calma serafica come a voler dare molta importanza alla situazione o agli avvenimenti con il moi si prendeva una brace dal fuoco, per portarla all’estremità del capolavoro fatto, poi con un forte respiro, una gran boccata di fumo entrava nei neri polmoni, per ritornare poi su per il camino, soffiata a pieni polmoni, gesto liberatorio.
Era come aver fatto una bella corsa e quando ci si ferma si emette un forte respiro, per scaricare la fatica.
Siamo pronti, si può iniziare a raccontare gli avvenimenti, e a rispolverare per la centesima volta le vecchie storie per non lasciarle disperdere nell’abisso del tempo.

Comunque tra una storia e l’altra c’era la sorpresa, anche se sorpresa non lo era mai, io attendevo lo stesso con una certa ansia questo momento, all’improvviso, dalla penombra della stanza appariva la Catinù con un vasetto in mano, questo è una delle cose che non sono mai riuscito a ricreare nella mia vita.
La base del contenuto del vasetto era la grappa nostrana, poi però c’erano assieme delle fragoline bianche, che io credevo fossero raccolte prima della maturazione, invece poi capii che era l’alcol a togliere il colore, assieme a queste delle ciliegine, più altra frutta, ma la diversità erano dei strani oggetti rotondeggianti e con delle piccole protuberanze, pigne piccole, non pigne qualsiasi, dovevano essere raccolte sul dosso del Gùmer, perché solo questi pini erano idonei, solo in questa zona si potevano trovare queste piante speciali, erano gli unici, forse di tutto il mondo, e nonostante tutto bisognava raccoglierle al momento giusto, altrimenti non sarebbero state buone.
Pensando a queste cose con il senno di poi, ora che conosco benissimo le piante, ho capito che era un modo per dare importanza alle cose che si facevano, magari sopravalutandole, ma almeno avevano un senso.
Comunque resta il fatto che questo miscuglio, era buonissimo, dava allegria, riscaldava, e curava la tosse con le pigne.
Il Cavra era un gran intenditore di grappa, questa si faceva di nascosto, le regole della finanza erano molto più severe e il contrabbando altrettanto, nel nostro paesino erano ubicate varie distillerie abusive, più o meno tutti le conoscevano, quella di Canai, forse era la più famosa, Canai è una valletta irta e impervia, da dove in qualche angolo nascosto era ubicato il lambic, d'altronde, le basi erano buone, l’acqua corrente per raffredare il vapore alcolico, la legna per il fuoco del paiolo, il luogo nascosto, l’odore della grappa che si disperdeva nell’aria, senza essere annusato da ospiti indesiderati.
Questa era una delle attività del Cavra, mi ricordo ancora benissimo quando alla sera estraeva la famosa bottiglia bianca con il tappo di sughero, la scuoteva, e ci faceva vedere la corona (scuotendola la grappa forma delle bollicine ai bordi, da qui il nome corona), dalla permanenza di questa ci diceva i gradi, corona lunga grappa forte, corona corta, leggera, poi si apriva il palmo della mano e vi si versava un goccio di grappa, si strofinava vivacemente con l’altro palmo, per poi annusare l’odore, da questi si capiva di che cosa era fatta, vinacce, ciliegie, mele, cornai etc.
Dopo tutte queste verifiche, spesse volte eseguite sulla stessa grappa, veniva versata nei bicchierini degli ospiti, che purtroppo, dal lato estetico erano molto belli, ma non assolvevano minimamente il loro compito, dato che allora la grappa si beveva e non era solo assaggiata, di conseguenza andavano continuamente rincalzati.
Tutti questi rituali, non hanno niente a che vedere con una seppur buonissima grappa, consumata in un bar, in un bicchierino con la riga per dosarla alla perfezione, e nonostante il caldo accogliente del locale.

Inserito da Visitatore sab 07 feb 2004 15:36:05 CET

El_fer_da_segar

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El fer da segar.

Tin, tin, tin, questo suono metallico, fino a pochi anni fa era parte integrante dell’aria della mattina.
Si batteva la falce.
Il fieno, veniva tagliato tutto a mano.
La falce era lo strumento indispensabile per eseguire questa operazione
Alimentare gli animali da stalla per il lungo inverno significava avere le risorse per cibarsi, oltre a conservare il “capitale”.
Essere capaci di battere la falce non è un’operazione cosi semplice, in teoria bisogna assottigliare gli ultimi tre o quattro millimetri del ferro che va a contatto con l’erba questa operazione si fa con un martello e un apposito ferro sotto.
Cosi facendo, diventa come un rasoio e l’erba cade ai nostri piedi con poca fatica e quasi con grazia.
Per sapere se era battuta bene, mio papa mi ha insegnato a passare con l’unghia del pollice con una leggera pressione, sotto alla battitura, se si vede il ferro che segue l’impronta dell’unghia allora è fine abbastanza.
Ho...

El fer da segar.

Tin, tin, tin, questo suono metallico, fino a pochi anni fa era parte integrante dell’aria della mattina.
Si batteva la falce.
Il fieno, veniva tagliato tutto a mano.
La falce era lo strumento indispensabile per eseguire questa operazione
Alimentare gli animali da stalla per il lungo inverno significava avere le risorse per cibarsi, oltre a conservare il “capitale”.
Essere capaci di battere la falce non è un’operazione cosi semplice, in teoria bisogna assottigliare gli ultimi tre o quattro millimetri del ferro che va a contatto con l’erba questa operazione si fa con un martello e un apposito ferro sotto.
Cosi facendo, diventa come un rasoio e l’erba cade ai nostri piedi con poca fatica e quasi con grazia.
Per sapere se era battuta bene, mio papa mi ha insegnato a passare con l’unghia del pollice con una leggera pressione, sotto alla battitura, se si vede il ferro che segue l’impronta dell’unghia allora è fine abbastanza.
Ho provato alcune volte a batterla, ma ho preso forse troppo ferro, forse poco, forse martellate troppo decise o leggere, fatto sta che al posto di un filo fine ed uniforme sono usciti tutti denti con il ferro pieno di crepettine.
Battere la falce è un’arte, gia allora chi la batteva bene erano in pochi, si ricorda del Damo che la batteva ogni mezzora, però era come un vero rasoio, io personalmente ho visto e provato delle falci battute bene, e devo dire che non ci sono paragoni.
La falce non può essere affilata con flessibile o altre diavolerie varie deve solo essere battuta.
Questa arte credo che andrà persa in pochi anni.
Una buona falce deve essere composta da un buon acciaio, non è facile trovarla buona, per chi se ne intende basta battere la sua punta tenendola dall’attacco del manico su qualcosa di duro e dal suono che emette (da come canta) si sa se è buona o no, anche se della stessa marca l’acciaio cambia.
Continuando a batterla e tagliare erba la falce si consuma, fino a diventare troppo sottile, e quindi inutilizzabile.
Quando la falce è battuta bisogna ogni tanto dargli il filo con la pietra, anche questa operazione bisogna saperla fare, prima di tutto per evitare di tagliarsi le dita, poi per far tagliare e durare il filo.
Il movimento per dar la pietra, sembra una danza della mano con la falce, sempre sul filo del rasoio, quasi una sfida tra l’uomo e l’attrezzo, comunque credo che quasi tutti prima o poi abbiamo perso la sfida.
Non è finita, adesso bisogna saperla usare nell’erba.
Prima cosa il filo battuto non deve venire a contatto con la terra sotto l’erba, altrimenti si ingrossa e non taglia, però l’erba deve essere tagliata bassa.
Per risolvere questo problema si tiene il manico della falce più o meno rialzato.
Con la mano con cui si impugna il legno finale del manico si esegue questa operazione, cosi facendo il filo della falce si alza o abbassa, rispetto al terreno.
Una regolazione per questa operazione viene fatta anche da un piccolo cuneo che tiene ferma la falce al manico.
Quando si trova un sasso nell’erba e con il filo lo si percorre tutto, anche una volta che erano forse più religiosi, uscivano delle invocazioni.
lavorare con la falce che non taglia si aumenta la fatica e il lavoro non viene fatto bene, batterla si perde un buon quarto d’ora a voi la scelta.
Guardando come era stata tagliata l’erba si riusciva quasi a sapere chi l’aveva tagliata, chi molto bassa, chi con regolarissime falciate, chi ne prendeva molta, etc.
Comunque era una gara di orgoglio a chi ne tagliava di più, e meglio.
Tante volte una persona iniziava un’ “andana” e subito dietro un’altra lo seguiva con un’altra andana, era quasi abitudine che quello dietro scherzasse, con quello davanti dicendogli di affrettarsi altrimenti gli tagliava le gambe.
Un”andana” è il pezzo di erba che si prende con un taglio di falce.
Per far l’andana si esegue una piccola rotazione del corpo e con il corpo che fa da perno con le braccia si ruotano tracciando dei pezzi di cercio tagliando l’erba, la ritmicità di queste rotazione, la loro ampiezza, distinguono i vari tagliatori di erba.
Sembra facile, ma farsi solo un’ora cosi se non si è capaci, il giorno dopo i muscoli dell’addome inviano delle proteste molto dure e reclamano il riposo.
Dove c’è pendenza l’erba si taglia dall’alto al basso, partendo con le andane dal basso, per evitare, che l’erba cada dopo tagliata su quella in piedi rendendo cosi difficoltose le operazioni di taglio.
Comunque come velocità di taglio, mio papa con la falce e io con il decespugliatore siamo alla pari.
Qualcuno pensa che ora sia finita, e di poter procedere al taglio erba, invece bisogna ancora regolare il pezzo di erba che la falce prende a ogni rotazione, per fare ciò, bisogna prendere la falce appoggiare su una superficie, il filo vicino al manico segnando dove si trova, ora tenendo fermo il fondo del manico si fa scorrere il filo della falce fino al punto più esterno misurando a vista la differenza con il segno fatto .
In genere quest’ultimo deve essere leggermente più aperto, cosi facendo quando la falce compie la rotazione tramite le braccia, il filo esterno più aperto tenderà a tagliare più erba, comunque quelli bravi lo tenevano aperto di quattro dita.
Un’ altro movimento si faceva spesso, quando nel prato c’era una pianta o un ostacolo che impediva il regolare semicerchio, si faceva un pezzettino di cerchio e si tagliava l’erba tirando la falce all’indietro verso la persona.
I manici detti (sciu) erano rigorosamente in legno, materiale leggero e resistente, modellati personalmente in base alle caratteristiche di chi le usava, altezza, bravura, mancini e varie.
Molto ricercato nei boschi era il manico che si impugna ( per i destri) con la destra, questi ha una forma circa a elle, o meglio dire 90 gradi, trovarlo con l’angolo perfetto per chi lo usa non e cosi semplice.
Cominciare all’alba a tagliare e finire al tramonto, ormai sembra cosa da altri tempi.
Mi ricordo di un triste racconto narratomi: una persona che dopo aver lavorato tutto il giorno alla sera contento di aver finito ha preso la falce e con un gesto liberatorio, tenendo il manico in piedi, ha battuto il fondo del manico in terra, non accorgendosi che la falce era direzionata sopra la sua testa.
Tin, tin, tin, ormai sono anni che non sento più questo suono melodioso.

Inserito da Visitatore sab 07 feb 2004 15:08:48 CET

Costruzione_baita

llucilio@tiscalinet.it

Ehi Avelino!! questa mi sembra giusta: Coraggio

Inserito da Visitatore mer 29 ott 2003 18:57:37 CET

Forgiatura

marco-gianna@libero.it

....ad un personaggio così stonano i guanti. Mitico Gioanì, ciao Marco 'Damo.

Inserito da Visitatore gio 02 ott 2003 00:25:43 CEST

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